Non profit

Da un G8 all’altro, Trent’anni di panzane

Già nel 1975, al primo appuntamento, la questione del commercio e del protezionismo che strangola le economie povere era sul tappeto...

di Joshua Massarenti

La spacciarono per «una chiacchierata tra amici attorno al fuoco». E a pensarci bene, il castello di Rambouillet, una cinquantina di chilometri a sud-ovest di Parigi, si prestava perfettamente al tipo d?incontro che l?allora presidente francese Valéry Giscard d?Estaing aveva preparato nei minimi dettagli: a base di Dom Perignon e cene da urlo, possibilmente in buona compagnia e soprattutto al riparo dei curiosi. Così, il 15 novembre 1975 con Gerald Ford (Stati Uniti), Takeo Miki (Giappone), Harold Wilson (Regno Unito), Helmut Schmidt (Germania), Aldo Moro (Italia) battezzò la prima riunione dei capi di Stato più potenti del mondo. Nome in codice: G6, che presto diventò G7 con l?invito a tavola del Canada e, dal 1997, G8 dopo l?arrivo della Russia. A dieci anni di distanza, il G8 è rimasto fermo nei suoi principi: a decidere le sorti del pianeta sono gli stessi compagni di merende, non uno di più, non uno di meno.

Un ente inutile
Il 27 maggio scorso, lo scrittore tedesco Hans Magnus Enzesberger ha ricordato sulle colonne del Corriere della sera che non solo «il vertice degli otto è diventato un ente inutile», ma che «il suo isolamento dalla realtà costituisce una minaccia sia per il G8 stesso che per gli altri». In altre parole, c?è da giurare che il summit di Heiligendamm, in Germania, in programma dal 6 all?8 giugno rischia di essere un ennesimo buco nell?acqua. Ma è davvero così? «No», sostiene Philippe Faucher, docente di Scienze politiche presso l?università di Montréal. «Piuttosto, trovo interessante soffermarsi sulle questioni politiche, sociali, ambientali e economiche affrontate da questa istituzione negli ultimi 25 anni e tracciare il modo con cui sono state risolte o meno».

E allora partiamo proprio da Rambouillet. Si scopre che il primo documento (poco più di due pagine) stilato dall?allora G6 conteneva punti che ancora oggi sono l?oggetto di scontri diplomatici degni delle scene più esilaranti del Dottor Stranamore. Prendiamo il commercio internazionale: nel 1975, il G6 preconizzava la liberalizzazione dei mercati per mettere un freno al protezionismo. A trent?anni di distanza, gli agricoltori africani sono sempre in attesa di poter smerciare i loro prodotti in Europa e Stati Uniti, e sia Bruxelles che Washington non sembrano intenzionati a eliminare le barriere doganali. Altri punti sollevati nel 1975 e irrisolti in quest?alba avanzata del XXI secolo sono la dipendenza dell?economia mondiale dal petrolio, l?ambiente e lo stato di povertà in cui sono ridotti oltre un miliardo di esseri umani. In tutti tre i casi, i leader del G8 non hanno mai risparmiato fiato per denunciare i rischi a cui il mondo è sottoposto.

Summit di Colonia, 20 giugno 1999. Per chi si lascia ingannare dall?attualità (vedi il tema estremamente in voga dei biocarburanti per combattere l?effetto-serra), sarà utile ricordare un brano assai suggestivo del comunicato finale del G8, il quale considerava «i cambiamenti climatici come una minaccia molto seria per lo sviluppo sostenibile. Cercheremo quindi di far entrare al più presto in vigore il Protocollo di Kyoto». Cosa puntualmente avvenuta nel febbraio 2005, ma senza l?adesione decisiva degli Stati Uniti.

L?Africa: una foto e via
Colonia è stata ricca di spunti per un altro grande tema: la povertà, con attenzione particolare all?Africa. Le promesse di «fornire aiuti sostanziali ai Paesi in via di sviluppo» e «dare un impulso decisivo per alleggerire il debito estero» trovano come unico effettivo riscontro l?invito ?eccezionale? rivolto a cinque capi di Stato africani (Senegal, Egitto, Sudafrica, Algeria e Sudafrica) di presentarsi in Germania per le tradizionali foto di rito e tornarsene a casa senza batter ciglio. Qualcosa cambierà nel bene con l?irruzione della società civile e nel male con un manipolo di anarchici capaci solo a trasformare il G8 in «un campo di prigionia arredato sontuosamente» (dixit Enzesberger). Da Genova (2001), inizia l?era degli slogan massmediatici (il più noto rimarrà «Voi otto, noi 6 miliardi»), ai quali i leader più potenti del mondo tentano di dare risposte concrete a Gleneagles (2005). Nonostante gli attentati di Londra, il premier inglese Tony Blair riesce a tenere in disparte la lotta al terrorismo (un paio di giorni, non di più) mettendo in cima alla sua agenda politica la cancellazione totale del debito multilaterale di 35 Paesi molto indebitati e la promessa di raddoppiare da lì al 2010 gli Aps, ossia gli aiuti pubblici allo sviluppo (50 miliardi di dollari in media all?anno, il 50% dei quali da destinare all?Africa).

Ma quasi ad illustrare i limiti politici di un?istituzione prestigiosa quanto inutile, è bene ricordare che chi avvalorò in via definitiva la cancellazione del debito non fu il G8, bensì la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale. Per quanto riguarda gli aiuti allo sviluppo, Oxfam ha di recente giudicato «scioccante che gli aiuti del G8 ai Paesi poveri, anzi che aumentare, sono per la prima volta dal 1996 diminuiti nel 2006», per poi precisare che «il G8 potrebbe ridurre a 30 miliardi di dollari» gli Aps. In fin dei conti, l?ex cancelliere Helmut Schmidt ha ragione quando sostiene che «il G8 è ormai un evento mediatico». È più opportuno raccontare bufale in «una chiacchierata tra amici attorno al fuoco» che esporle al mondo intero.


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